L’omaggio a Maria Callas firmato Fredy Franzutti

Fredy Franzutti e il Balletto del Sud portano a Catanzaro l’omaggio al soprano Maria Callas per il centenario dalla nascita che ricorrerà nel 2023.

Lo spettacolo intitolato ‘La traviata. Maria Callas, il mito‘ è una coproduzione del Festival d’Autunno, debutta in prima nazionale venerdì 28 ottobre nel Teatro Politeama di Catanzaro.

«Il Festival quest’anno propone tre eventi di danza di respiro internazionale profondamente diversi l’uno dall’altro per cogliere i cambiamenti e le innovazioni in atto e proporle in una regione lontana dai circuiti della grande danza. Un’operazione di ampio respiro culturale oltre che spettacolistico»

Antonietta Santacroce, direttrice artistica Festival d’Autunno
Nuria Salado Fustè, Ballettodelsud.it

A portare in scena la figura della Callas è la ballerina Nuria Salado Fustè in una storia che intreccia la tragedia greca alle imponenti scenografie e ai costumi d’epoca europei, ricostruiti grazie a preziose immagini fotografiche.

Il coreografo e regista leccese è tra i più noti del panorama nazionale e internazionale, realizzando balletti per eventi Rai e teatri esteri fra cui il Bolshoi di Mosca, l’Opera di Montecarlo, l’Opera di Magdeburg, Sophia e Tirana.

Maria Callas e Giuseppe Verdi, come nasce l’idea di legarli?

Maria Callas / CREDIT: Tully Potter Collection

Nasce dall’ultimo atto di due vite accomunate da un’identica sorte e che sovrappongo, quella di Maria Callas a quella della protagonista di Verdi, Violetta. La creatività è istintuale, legata al personaggio e creare uno spettacolo non è mai difficile. La voglia di comunicare non è un impegno da assolvere, ma un desiderio. Anche quando ho lavorato su commissione ho quasi sempre accettato argomenti specifici, cogliendo l’opportunità di realizzare delle idee che avevo già nel cassetto.

Santacroce ha definito questo spettacolo dall’ampio respiro culturale. Può spiegare meglio?

Questo spettacolo è molto europeo: riprende la tragedia della Magna Graecia sulle musiche di Giuseppe Verdi e del musicista greco Iannys Xenakis, racconta la vita e la “grecità” di Maria Callas, la cui vita termina a Parigi, nel cuore dell’Europa. C’è l’integrazione tra l’arte greca e italiana, con continui riferimenti storici e artistici europei, quindi è uno spettacolo che abbraccia tutta l’Europa.

La danza è un’arte frequentata da pochi, soprattutto nel Meridione. Dipende da una distanza culturale o geografica dai grandi centri?

La danza è un’arte che si fa, ma che non si vede. Non siamo educati alla fruizione dell’arte della danza. Sono migliaia le ragazze che frequentano scuole di danza e c’è una iper presenza di scuole amatoriali che offrono un’esperienza limitata al saggio di danza della nipotina o della figlia.

Questo comporta che non si riesca a discernere l’arte della danza, come invece siamo abituati a fare con la musica. Un saggio amatoriale non può emozionare come un balletto o uno spettacolo, così come un concerto di musica classica non sarà mai come un concerto di Claudio Baglioni.

Penso che bisogna creare la necessità: se c’è troppa danza, il pubblico non sentirà il bisogno di cercarla ed è molto difficile formare il pubblico pagante affinché frequenti gli spettacoli di danza e impari a distinguerli per autore, compagnia e non per genere.


TRAMA – Sulle musiche di Giuseppe Verdi e del musicista greco Iannys Xenakis, il coreografo Fredy Franzutti ha ricreato la figura di Maria Callas nella trasposizione de ‘La traviata’ con la quale debuttò nel 1955 al Teatro alla Scala e la cui interpretazione è rimasta memorabile.

Per accentuare la drammaticità della messa in scena, Franzutti ha aggiunto alle musiche originali e immortali di Verdi, quelle di Xenakis, artista amico del soprano, definito ‘l’architetto del suono’ per il suo modo di concepire la musica. Accanto a Nuria Salado Fustè, nei panni della protagonista, altri eccellenti ballerini: Matias Iaconanni, nel ruolo di Alfredo Germont, e Carlos Montalvan che interpreta Giorgio Germont. Con loro, in scena, i solisti e il corpo di ballo del Balletto del Sud.

Carlos Branca dirige Luca Ward in un viaggio del tempo a teatro

Carlos Branca dirige Luca Ward in “ATTRA_VERSO L’UNIVERSO. Viaggio nel tempo”, una produzione del Festival d’Autunno che per la prima volta, va in scena al Teatro Politeama di Catanzaro sabato 15 ottobre 2022.

Il regista argentino, di origine calabrese, affronta il tema della parola e del viaggio assieme a due ballerini che danzano sulle note di Philip Glass, Luis Bacalov, Ivano Fossati, altri importanti autori da Wagner, Haendel e a suoni provenienti dallo spazio.

Debuttare in Calabria è la metafora di un ritorno a casa?

Torno sempre volentieri in Calabria, i miei genitori sono emigrati da Acri, vicino Cosenza e il calabrese è la mia lingua materna. Da bambino, quando tornavo in Calabria, parlavo con le mie zie e alcune parole che conoscevo erano del dialetto calabrese degli anni ‘50 che mi era stato tramandato.

Il dialetto è una lingua reale, aperta, che si evolve e si contamina e mi piace, così come mi piace mischiare la musica in funzione della narrazione. Prendiamo Bacalov e Morricone che hanno lavorato a tutta la Musica Leggera Italiana. Bacalov si chiedeva sempre se la musica è leggera si chiamasse così perché l’altra è pesante. Ciò che voleva dire è che non esiste una musica migliore di un’altra.

In che modo è nata l’idea dello spettacolo?

Con la mia compagna Rosanna Pavarini e Antonietta Santacroce abbiamo scritto quest’opera senza la pretesa di insegnare qualcosa. È una narrazione su un ipotetico viaggio di Ulisse, in cui utilizziamo, senza porci limiti, musica di Puccini, Fossati, il Tango di Piazzola e altri. Prendiamo da tutti i generi che ci piacciono per riuscire a compiere un viaggio che è un monologo interiore. Può essere un viaggio d’amore o come il viaggio che la mia mamma è stata costretta a fare verso l’Argentina, lasciando la Calabria per seguire il marito e i fratelli.

Si può parlare di un viaggio in cui riscoprire la storia e riappropriarsi di certe emozioni?

Gli spettacoli li faccio sempre per me e questo lavoro è la metafora di tante cose: è contaminazione di musiche diverse come il tango che è pieno di nostalgia e racconta una storia in tre minuti. Mi piace la contaminazione artistica che fa cadere i limiti unendo tante cose diverse. È fondamentalmente un abbraccio.

Da dove nasce la scelta di separare la parola “Attra_verso” nel titolo dello spettacolo?

È un gioco di parole perché mi interessa il concetto del “verso”. L’intento è di andare dentro l’universo per mezzo dei versi, della poesia e delle parole. “Attraversare” è una parola sola, ma dividendola diventa tante altre cose diverse. Ho lavorato 15 anni con Luis Bacalov e mi ha insegnato che la musica esiste dai silenzi, perché senza silenzi non c’è suono. La pausa tra parole e pensieri anima il nostro monologo interiore.

Dopo la prima nazionale a Catanzaro, sono previste tappe successive?

Intanto pensiamo a far bene la prima, poi si vedrà. Non dobbiamo avere un’estetica delle parole ben dette, ma per essere artistico e teatrale bisogna essere a servizio della narrazione e Luca Ward ha un approccio che a mio avviso è meraviglioso. Con la lirica non si può toccare nulla, ma in teatro ci si può permettere tutto.

La libertà espressiva è tipica del teatro?

Il teatro ha un pubblico vivo, che reagisce in modo carnale e vivace nel qui e adesso. Un’azione può funzionare in un contesto e non funzionare in un altro. In Argentina diciamo che “la libertà è la mamma di Dio” e in teatro c’è questa libertà. È nella finzione di una tragedia o di una commedia, è reale anche quando non lo è reale, perché è nella fantasia che c’è libertà.

Vede spunti per migliorare o gemellare il teatro argentino e quello italiano?

Il mio paese ha vissuto momenti molto tristi dal punto di vista politico e dei diritti sociali, ma il teatro è molto importante per esorcizzare, comunicare e condividere. Le persone vivono la loro giornata e poi frequentano laboratori teatrali, quindi il teatro indipendente è una potenza. A Buenos Aires puoi trovare 400 diverse opere di teatro in un weekend e c’è gente a tutte le ore. Qui si fa teatro sempre a partire dal budget e questo cambia tutto. È ovvio, io vivo di questo e devo sopravvivere, ma in Argentina c’è effervescenza e passione, non è un’istituzione culturale, c’è bruttezza ma possono nascere cose belle senza cercare sempre la cura estetica.

Lino Guanciale a teatro con Ennio Flaiano

L’intervista completa a Lino Guanciale che al Teatro Politeama di Catanzaro porta finalmente “Non svegliato lo spettatore”, chiudendo la sezione “Musica & Cinema” 2022.

Lino Guanciale veste i panni di Ennio Flaiano, vincitore del Premio Strega nel 1947 e sceneggiatore di celebri pellicole dirette da grandi cineasti italiani, tra cui Federico Fellini e la coppia Steno-Monicelli.

Lo spettacolo è prodotto dal TSA Teatro Stabile d’Abruzzo, in collaborazione con Stefano Francioni Produzioni, musiche e regia di Davide Cavuti.

Lino Guanciale, regia di Davide Cavuti

Lo spettacolo nasce come tributo a Flaiano?

L’intenzione è di fare un omaggio, ma anche di comporre un ritratto attraverso il linguaggio teatrale, che sia utile allo spettatore che, se lo conosce può andare a rimpolpare le sue conoscenze, se non lo conosce è stimolato a leggere qualcosa.

Nel costruire e portare in scena “Itaca” insieme a Davide Cavuti, abbiamo lavorato sul materiale di Ennio Flaiano per una sequenza del recital. È un autore che entrambi amiamo molto e abbia scelto di usare quello stesso materiale in “Non svegliato lo spettatore”.

È conosciuto per gli aforismi e lo spettacolo serve a togliere un po’ di polvere da quest’autore che oggi è conosciuto per il suo cognome più che per le opere.

Riteniamo che sia stata una delle voci critiche più lucide dell’Italia del benessere e del boom economico. Attraverso diversi upgrade successivi, la cultura super consumista è la stessa in cui viviamo ancora oggi.

Da autore eclettico per antonomasia qual è stato, crediamo valga la pena proporre un excursus sui diversi specifici letterari in cui si è mosso. Lo spettacolo quindi passa in rassegna i lavori teatrali, sia come recensore, che traduttore che autore di commedie, l’aforistica, la scrittura per il cinema e i lavori narrativi, per esempio “Tempo di uccidere” è l’unico romanzo che ha scritto, vincitore del primo premio Strega della storia.

Se poi Flaiano non ne ha scritti altri è per una motivazione flaianea, perché non gli interessava scrivere per campare, ma per chi scrive romanzi, bisogna scrivere solo quando se ne ha in testa uno che sia un grande romanzo.

Il teatro è sempre presente nella sua carriera e oggi ha tre spettacoli attivi di cui due come regista.

Attraverso il teatro cerco di mettermi continuamente alla prova. È il linguaggio che parlo più istintivamente, è il luogo in cui sono nato e di volta in volta faccio il punto umanamente e artisticamente.

Il set invece mi ha dato molto soprattutto a livello attoriale: l’esperienza con la macchina da presa mi ha aiutato a crescere come attore e nel mio approccio teatrale.

Il mio mestiere serve senz’altro per creare bellezza come ogni specifica espressione artistica, anche a intrattenere, ma può servire molto alle persone per conoscersi e relazionarsi.

Il teatro è questo, mettersi nei panni degli altri e lo si impara facendolo, ma lo si può imparare anche da spettatori vedendolo fare con la dovuta intelligenza e rispetto.

In qualunque ambito ci si muove bisogna cercare di fare cose rischiose che prevendano un margine di incognita forte.

Non svegliato lo spettatore” è molto divertente, ma non è puro divertimento, perché ha il proposito brechtiano o flaianeo – tra i due esiste un’analogia credo – di innescare una riflessione assieme allo spettatore.

Credo moltissimo in questo, chiaro che assumersi dei rischi implica che le cose possano ricevere maggiore o minore fervore nel pubblico. Per le mie esperienze, sono molto felice della risposta che ho avuto, anche con i lavori più complessi, non solo a teatro. Se si dimostra una certa coerenza poi il pubblico apprezza il fatto che ti metti alla prova in cose diverse, che cerchi di spostarti da un linguaggio all’altro cercando di mantenere la “schiena dritta”.

Lino Guanciale si diverte di più come attore o come regista?

È più divertente essere attore, però da regista impari molto di più sulla progettualità e sulla costruzione di un’architettura espressiva per riuscire a comunicare qualcosa a cui tieni. La regia è fare ordine in un pensiero, cercare di costruire una frase in maniera che sia leggibile l’interpretazione che vuoi dare di un contenuto. È appassionante, ma non ha molto a che vedere con lo scalmanamento dionisiaco che ti puoi concedere facendo l’attore.

Protagonista di fiction di successo, fa eccezione “Noi”. È stato un progetto troppo rischioso?

Sono molto felice del lavoro fatto su “Noi” e del lavoro in sé, credo sia un progetto molto rischioso che è stato condotto con grande capacità registica.

Lino Guanciale nella serie tv “Noi”

Sono cresciuto molto interpretando il personaggio di Pietro, così distante per provenienza da tutte le altre cose che ho avuto la fortuna di fare e sono decisamente debitore a “Noi” per avermelo fatto incontrare, mi ha dato personalmente moltissimo.

In teatro mi era capitato di interpretare personaggi di estrazione proletaria, vincendone anche dei premi importanti, ma per la tv ed il cinema non mi era ancora capitato.

Era un’asticella molto alta per il pubblico, a cui alcuni hanno risposto con grande affezione, altri evidentemente hanno preferito altre modalità narrative più abituali. “Noi” costringe ad un avanti e indietro nel tempo che richiede una tenuta d’attenzione e appassionamento alla vicenda diverse rispetto a quello che avviene con modalità lineari a cui siamo più abituati.

Non è un giudizio di valore. Progetti che hanno modalità molto lineari di narrazione sono bellissimi e non ne faccio un discorso tipo il progetto più rischioso è più bello o efficace, invece quelli lineari sono “più sicuri”.

Se ti assumi il rischio di fare un progetto diverso, può succedere che una parte del pubblico ci stia e un’altra ci stia meno.

Credo sia significativo il fatto che abbia fatto bellissimi risultati su Rai Play. Ci sono molte persone che hanno preferito la piattaforma alla messa in onda serale e c’è anche il fatto che sia coincisa con lo scoppio della guerra in Ucraina.

Diversamente da progetti come “Doc” a cui il pubblico è già affezionato, “Noi” è una serie rischiosa, ha debuttato in prima serata in un momento molto complicato e, come altri progetti alla prima messa in onda in quel frangente, ha fatto risultati più o meno in linea in termini di share televisivo.

LinoGuanciale-ph: Manuel Scrima

Lei da tempo è testimonial per Unhcr, qual è la sua visione sulla guerra in Ucraina?

C’è ancora una forte ondata di interesse verso i rifugiati ucraini, sia quelli che fuggono che intraprendono spostamenti all’interno di un territorio così vasto. C’è grande attenzione, le persone continuano a partecipare a programmi di ospitalità ed è una cosa meravigliosa, ma arriverà un momento in cui quest’ondata di interesse avrà meno pubblicità.

La tenuta d’attenzione rispetto a una notizia è fisiologica, ha comunque un termine ed è già successo in passato che l’interesse scemasse col tempo. Mi auguro che si riesca a mantenere alta l’attenzione su questo tema, non dimenticando gli altri.

Sono stato il primo ad impegnarmi con le sottoscrizioni e sensibilizzazione, non bisogna assolutamente abbandonarli, ma allo stesso tempo non bisogna dimenticarsi di tutte le altre emergenze che prima dello scoppio della guerra in Ucraina facevano notizia.

Penso all’Afghanistan di cui non parla più nessuno, a pochissimo interessa quel che sta accadendo in Yemen e questo lo dice, lo chiarisco subito, un favorevole anche all’appoggio militare alla resistenza ucraina.

Si faccia tutto il possibile per alimentare l’attenzione sui rifugiati in fuga da quel paese e stiamo attenti a quel che succederà quando, alcune voci intempestivamente pacifiste – che sul tema rifugiati ucraini hanno fatto un’inspiegabile deroga mentre altri rifugiati sono trattati diversamente – tra un po’ di tempo cominceranno a dire che i rifugiati ucraini saranno un problema.

Non credo che sarò profeta smentito in questo caso.

Manteniamo l’attenzione e la nostra sensibilità umana attiva a prescindere dalle ragioni di parte o del consenso.

Star Wars: L’ascesa di Skywalker. Recensione o punto di vista?

In occasione dello Star Wars Day, intendo riunire e contemplare -nuovamente- e in rispettosa allegria, l’ultimo prodotto della terza trilogia della saga sci-fi veterana del cinema internazionale!

rilasciato nel 2019

J.J. Abrams ha firmato l’ultimo capitolo e lascia un marchio registico predominante, soprattutto nella realizzazione di effetti speciali mozzafiato.

Dopo tre anni, rivederlo mi restituisce l’appagamento di vedere sapientemente bilanciata tanto la storia, quanto i generi mescolati nella narrazione. È un’orchestra armonica: dai combattimenti dal sapore western, agli inseguimenti alla velocità della luce, la mobilitazione popolare ispirata da ideali politici e sociali.

All’interno delle sequenze d’immagini e di sceneggiatura non sono mancate le inadempienze e le forzature dovute allo sfacciato fan service che penso sia il male cronico. Penalizza la creatività peggio del blocco dello scrittore.

Ed ecco quindi che ad un certo punto si perde il filo del discorso e della narrazione. E se decidessi di fare un rewatch dell’intera trilogia, o addirittura di tutte le trilogie, ho ragione di credere che la cosa sarebbe ancora più evidente.

Il montaggio e gli effetti speciali sanano i buchi neri di sceneggiatura restituendo spettacolarità.

Non c’è un ritmo costante, la fluidità di alcuni tratti inciampa in momenti “sacrificabili” (POV). Ci sono dialoghi discutibili ed apparizioni di personaggi, ormai dipartiti, senza una spiegazione plausibile (vedi il caso di Palpatine e lo stesso Luke Skywalker).

Accorato è invece il saluto alla Fisher (Principessa Leila) con il buio in sala. Grande prova attoriale per i protagonisti, Daisy Ridley e Adam Driver, che sollevano certamente il ritmo della narrazione.

Nel complesso, continuo a pensare che sarebbe potuto essere un finale migliore per la terza trilogia, rendendo merito ai nuovi eroi, ben lontani dall’immortalità dei loro “padri”.

Trama di Star Wars: L’ascesa di Skywalker

Rey deve dimostrare di essere degna della spada laser di Luke Skywalker e Kylo Ren deve mostrarsi all’altezza della maschera dei Sith del nonno; nessuno dei due può sfuggire al confronto con le origini. Finalmente si chiarisce il mistero della discendenza della “scavarottami” in uno dei tanti attesi colpi di scena, come il duello tra i lati opposti della Forza che porta verso rivelazioni, pentimenti, redenzioni e cambi di schieramento.

Il Romantic Tour di Mario Biondi ferma a Catanzaro: l’intervista

«La mia voce mi ha fatto scegliere un genere, ma la mia anima mi ha condotto. Il mio cuore era soul»

Parola di Mario Biondi che dopo svariati anni, torna in concerto a Catanzaro. L’artista catanese si esibisce al Teatro Politeama nella serata del 9 maggio con il suo “Romantic Tour” tratto dall’omonimo album uscito il 18 marzo.

Intona il “Buongiorno a te” di Pavarotti in apertura dell’intervista e ironizza:

«Bisogna capire questo Mario Biondi che cosa ci racconta»

Mario biondi sulla cover dell’album “Romantic”

Quando e come nasce Romantic Tour?

Il tour inizia quando stabilisco il titolo di un progetto, automaticamente inizio ad avere le visioni: immagino il palco, il repertorio, quello che avverrà. Questo tour ripercorre il viaggio della mia vita, a partire dalla mia terra, passando per la Calabria e poi arrivare sù a nord dove, intorno agli anni ’70, la mia famiglia si installò. Prima a Reggio Emilia e poi in Lombardia, con la voglia di poter crescere nel lavoro, per poter dare un futuro migliore alla nostra famiglia.

L’album “Romantic”, uscito il 18 marzo, è un progetto ispirato dal periodo pandemico?

In un certo qual modo sì. Durante il primo lockdown siamo riusciti a presentare un progetto che si chiamava “Dare” con brani standard ed inediti. Questo nasce nella seconda ondata, verso una visione più ottimistica della pandemia. Lo chiamerei “Romantic verso la luce”, poi purtroppo all’uscita del disco c’è stata la peggiore visione che poteva capitare, la visione della guerra.

Lei è un romantico?

Sì, lo sono e per me è una sorta di outing questo disco. Io credo nel romanticismo, sono un sognatore e penso che un po’ tutti lo siamo. C’è chi non vuole ammetterlo per darsi un tono e per evitare di diventare banale. Il romanticismo come tante virtù, negli anni è diventato uno spauracchio per gli uomini, ma è una forza incredibile. Tramite il sogno si riesce a immaginare un futuro che altrimenti sarebbe davvero difficile da vivere.

È il suo timbro vocale che ha scelto il genere o è stata l’affinità ad altre grandi voci americane?

La mia voce mi ha fatto scegliere un genere, ma la mia anima mi ha condotto. Il mio cuore era soul e in linea di massima, avere un riferimento per chi deve conoscerti è importante. Nella musica, come nella bellezza, quando si paragona una ragazza ad un’attrice è per far capire subito all’altra persona di cosa si sta parlando. Nel mio caso, penso che Barry White ha generato milioni di figli al mondo, era chiamato “il cantante da camera da letto” grazie alle sue atmosfere, era la musica giusta per accompagnare un certo tipo di intimità. Quando oggi mi dicono “Tu sei un nuovo Barry White” capisco che entro nelle loro camere da letto e da un certo punto di vista mi fa un po’ impressione, ma mi fa piacere per loro.

Il soul, come il jazz, in Italia è cambiato molto, si è espanso rispetto a quando ha iniziato?

Quando ho iniziato era quasi un tabù. Cantare brani soul/jazz era impopolare. I discografici tendenzialmente non erano interessati, producevano “I Ragazzi italiani”. Ora invece vado a vedere realtà di musica soul e jazz piena di ragazzi dai 18 ai 30 anni con talenti incredibili e preparazioni didattiche eccezionali e questo mi fa pensare che la nicchia probabilmente si è ben allargata. Ci vuole tanta dedizione per qualsiasi genere e spendersi tanto per portare a casa dei risultati.

Tra gli interpreti più celebri del genere troviamo afroamericani e poi lei. In qualche modo, ha riscontrato ostilità?

È vero che il soul americano era tendenzialmente appannaggio dei neri, ha dato loro identità e forza in un periodo in cui erano ancora molto osteggiati dalla società americana.

Ciò che arrivava poco prima però era di matrice soul, ma era per lo più appannaggio dei bianchi e non era previsto che degli afroamericani potessero avere voce in capitolo.

Se andiamo a scorrere le pagine del tempo ci accorgeremmo che la musica è stata democratica anche in quel caso. I miei inizi sono stati piuttosto belli, era un impegno, c’era la strumentazione da caricare in macchina, guidare fino a destinazione e cantare per cinque ore di fila, che era un’infinità, ma ha permesso alle mie corde vocali di fare i muscoli e sono diventate sempre più toniche.

All’inizio parlavamo delle sue origini. La vena artistica è un’eredità. Ci racconti.

Mia nonna era una cantante che durante la guerra si trasferì in Piemonte per fare la mondina, fu notata perché era una bella donna e iniziò a cantare in radio. Anche mio nonno Mario, che negli anni ’60 a Reggio Emilia aprì un bar che faceva pasticceria e gelateria, era un sognatore come me. C’è tanta storia che se potessi ripercorrere a retroso mi piacerebbe andare a ritrovare, così anche un disco che fece mia nonna negli anni ’40.

È una sfida, oggi in Italia, proporre brani puramente soul/jazz?

La musica in generale ha sempre bisogno di contaminazioni, nuove idee e sviluppi di alternative. Gruppi come i Police che hanno generato artisti giganteschi, vengono dal misto tra jazz, reggae e pop e sono riusciti a generare uno stile e modalità incredibili. Tutti i gruppi importanti vengono dal misto. È fondamentale, bisogna unirsi e la cosa bella è che la musica non ha razzismi di nessun genere ma anzi, si nutre delle differenze.

È un ritorno a Catanzaro dopo diversi anni. Si aspetta qualcosa dal pubblico?

È sempre uno scambio positivo quello con il pubblico. Dopo due anni e mezzo senza tour, questo mi mette un po’ in imbarazzo, mi sembrano passati decenni. Nel frattempo molte cose sono cambiate, c’è un salto generazionale piuttosto importante. Con quest’ondata di giovani artisti che arrivano al successo, bisogna capire questo Mario Biondi che cosa ci racconta.

Il silenzio grande: dal teatro al cinema. Intervista di Massimiliano Gallo

La commedia scritta da Maurizio de Giovanni raccontata attraverso le parole dell’interprete, Massimiliano Gallo, che veste i panni del celebre scrittore Valerio Primic (sulla scena) sia in teatro che nel film di successo presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 2021.

Maurizio De Giovanni è il celebre autore napoletano di numerosi libri di successo diventati poi fiction e serie televisive come “I bastardi di Pizzofalcone”, “Il Commissario Ricciardi” e “Mina settembre”.

“Il silenzio grande” è una pregiata ciliegina per stagione teatrale di AMA Calabria, ideata e diretta da Francescantonio Pollice, che chiude con un’opera che aveva già trionfato durante la stagione 2019/2020, poi bloccata dallo stop pandemico.

La commedia segue la vita e le discordanze all’interno della famiglia Primic, diretta dall’originale regia di Alessandro Gassmann.

Come nasce “Il silenzio grande”? Il testo originario era per il teatro o per il cinema?

L’opera nasce per il teatro da una richiesta che Alessandro Gassman aveva fatto a Maurizio de Giovanni. Alessandro non sta facendo tournée e non va in scena da un po’, ma il testo gli piaceva. Maurizio l’aveva scritto immaginando che fosse lui a interpretare Valerio.

Un giorno eravamo sul set della seconda stagione de “I Bastardi di Pizzofalcone” e Alessandro mi da questo testo e mi chiede di leggerlo, perché se mi fosse piaciuto avrebbe curato lui la regia ed io avrei interpretato il protagonista ed è nato tutto così.

Il pubblico ha subito accolto lo spettacolo? La prima tournée è stata un successo, nonostante le riprese a singhiozzo

In basso: Massimiliano Gallo – Alessandro Gassman – Stefania Rocca
In piedi: Paola Senatore – Pina Giarmanà – Jacopo Sorbini

Sì aveva avuto un grandissimo successo già prima della pandemia, poi abbiamo ripreso per qualche altro mese, fino a che abbiamo girato il film con cui siamo stati al Festival di Venezia. È uno spettacolo strano per l’affezione e l’entusiasmo che si creano.

Non capitano spesso spettacoli magici, di grande impatto emotivo, in cui il pubblico si diverte tantissimo, si emoziona, ritorna due giorni di seguito – com’è capitato a Pesaro – e ci scrivono anche a distanza di giorni ricordando momenti o frasi dello spettacolo.

Il protagonista evidente è Valerio, ma c’è anche un protagonista non parlante che però rimane costantemente in scena, sia nel film che nello spettacolo. Può parlarcene?

Valerio Primic è un padre ingombrante, è uno scrittore di successo che crede di aver restituito tutto alla famiglia attraverso il benessere, una posizione sociale, i premi vinti.

Ma è vero, la villa rimane una co-protagonista perché si parla continuamente della vendita e degli affetti che lasci quando abbandoni una casa.

Famiglia Primic nel film “Il silenzio grande” (2021)

Ricordo che prendevamo le misure ai bambini, non ricordo se nel film ritinteggiavamo la parete, però Rose (interpretata da Margherita Buy) dice proprio questo, che non lasci solo delle mura, dei mobili, ma lasci un vissuto e quindi rimane protagonista indiscussa del testo.

Nonostante l’opera si svolga interamente nello studio in cui il resto della famiglia arriva a turno a vomitarmi addosso tutte le mancanze, la casa non è solo un luogo, ma è memoria in cui si sono vissute emozioni forti e rimane protagonista anche nel testo teatrale.

In questo Alessandro (Gassman) è stato molto fedele perché nella trasposizione cinematografica, in cui puoi trovare scorciatoie rendendo il film più ampio e movimentato, invece lui ha scelto di non uscire mai da quell’ambiente. Era un bella sfida, sarebbe stato facile trovare modi per renderlo più fruibile, ma alla fine anche per il film ci hanno scritto cose bellissime.

Quando siete riusciti a girarlo? In quel periodo eravamo nel pieno del lockdown?

Abbiamo girato dopo l’estate, dopo la prima fase. Ma la Campania era zona rossa e noi avevamo i permessi per uscire per poter girare, ma immagina la tensione. Vivevamo in una bolla di controlli serrati e girare tutto negli stessi ambienti è un bene.

La famiglia, raccontata tra l’incomunicabilità, l’umanità e le distanze, è il tema fondamentale del testo, o lo sono i rapporti umani?

Credo che Maurizio de Giovanni sia stato bravissimo a descrivere la tematica e la forza di una famiglia, così come il potere distruttivo che c’è all’interno.

Ci sono dei “non detti” che creano dei piccoli dilemmi, quando ometti di dire qualcosa per non ferire o perché ti annoi ad animare una discussione e dopo si sommano e creano un grande e insormontabile silenzio. Ci sono i rapporti padre-figli, marito-moglie, c’è anche lo scontro generazionale, tutte le dinamiche familiari sono descritte bene.

Anche in “Imma Tataranni – Sostituto Procuratore” è in un circuito familiare particolare. Il suo personaggio però fa da collante mentre in questa è il motivo di tensione?

Sì, il mio personaggio in Imma Tataranni è il collante perché altrimenti andrebbe allo sbando.

Sembra un personaggio debole, in realtà è molto strutturato nelle scelte che ha fatto di seguire la famiglia per amore. Sono due tipologie di famiglie completamente diverse. La famiglia Primic è stata invasa dalla personalità di questo scrittore che ha fatto della sua carriera il suo punto di forza, quindi tutto ruota intorno a questo studio che è il suo tempio. I figli piccoli non potevano entrare perché lo disturbavano, all’interno del quale devi andare a parlare con lui perché non esce da lì.

Presentato a Venezia, il film è stato ampliamente apprezzato dal pubblico tanto da portare a casa tre Ciak d’Oro, dico bene?

Esatto sì, Alessandro Gassman l’ha vinto come miglior regista, io come miglior attore e Maria Confalone come migliore attrice non protagonista. I premi sono una carezza al lavoro che fai e in questo caso siamo contenti di averli vinti, perché è il premio del pubblico.

Con UNITA ha supportato gli attori e la cultura in Italia. Ma quale potrebbe essere una “carezza al lavoro” concreta per gli operatori dello spettacolo?

Sono stato tra i fondatori di UNITA perché durante la pandemia ci siamo accorti che i più deboli sarebbero stati completamente dimenticati dal sistema e abbiamo cercato di costruire una forza rappresentativa. Oggi, con circa 1500 tesserati, abbiamo i più grandi interpreti attoriali di cinema e teatro che non hanno grossi problemi contrattuali e quindi si sono potuti esporre in rappresentanza degli altri.

Le motivazioni sono nobili, ma è un sistema difficile da scardinare. Bisogna tornare a proteggere le categorie più a rischio, riscrivere il contratto nazionale del teatro e scrivere quello del cinema che manca. È un paradosso tutto italiano e si sta facendo uno sforzo per sedersi al tavolo di confronto, trovando una serie di ostacoli che riguardano la burocrazia e la politica, abituata a muoversi secondo altre dinamiche.

Oggi è più difficile fare il vostro lavoro?

Da un lato è più difficile, dall’altro è il contrario. Mio padre (Nunzio Gallo, ndr) come il padre di Alessandro (Vittorio Gassman, ndr), lavoravano senza alcuna garanzia.

C’erano una serie di mancanze all’epoca, ma c’era la voglia di costruire qualcosa di nuovo, di mettersi in gioco e di lavorare tanto. Lo facevano senza nessuna protezione e avevano la possibilità di formarsi sul palcoscenico, la scuola la facevi sul campo. Le compagnie avevano un sistema di capocomicato per cui iniziavi con una battuta e man mano crescevi.

Prima non c’erano distinzioni tra cinema, teatro e televisione. Oggi il sistema non funziona benissimo, è fallato perché è entrata la politica. Uno spettacolo brutto che in passato non sarebbe durato due giorni, oggi è già stato venduto agli abbonati, ha ricevuto sovvenzioni statali.

Fino a prima delle sovvenzioni, abbiamo avuto i più grandi titoli della storia del teatro, gli autori scrivevano per fame e guarda caso sono tutti capolavori che ricordiamo e ricorderemo.

Tra cinema, televisione e teatro, in quale preferisce lavorare?

Sono uno di quelli che pensa che esistono attori bravi o non bravi, classificarli in una casella mi spaventa molto. Prima gli attori passavano dal teatro al grande film e alla pubblicità, oggi questa mobilità sta un po’ tornando. Io ho un’adrenalina completamente diversa: è come se fossi a casa mia in teatro e devo tornarci almeno tre/quattro mesi l’anno per un’esigenza fisica; il set voglio frequentarlo sempre perché è un’esplorazione dal punto di vista psicologico molto più profonda e mi piace per come funziona.

Sabato 30 Aprile in teatro a Catanzaro, ma dove potrà trovarlo il grande pubblico in futuro?

Imma Tataranni dovrebbe ripartire con altri quattro episodi a fine settembre e subito dopo sarò protagonista assoluto di un progetto a cui tengo molto, sempre per Rai, che s’intitola “Avvocato Malinconico” tratto dai romanzi di Diego De Silva.

22 Aprile | Giornata della Terra: idee green food & movie

Giusto qualche giorno fa, Ansa riportava che il 47% degli italiani punta verso l’acquisto consapevole del cibo locale. Il cambio di approccio in cucina invece ammonta al 52% con lo scopo di ridurre gli avanzi.

Per la Giornata della Terra 2022, una cosa è certa: il clima è impazzito e non sappiamo bene come correre ai ripari. Ecco perché ho pensato di stilare una lista di 10 idee green che uniscono il food ai movie.

Le serate a base di cibo e film difficilmente scontentano e in questo -un po’ pazzo- 22 Aprile, ecco le idee per promuovere uno stile di vita consapevole e celebrare il benessere dell’ambiente, e quindi dell’umanità.

Avatar (2009)

Avatar

Nell’infinita attesa del sequel, non posso che cominciare dalla favola di James Cameron. Targata 2009, la storia della popolazione dei Na’vi, che possiedono una cultura molto spirituale e legata al loro mondo interiore e naturale, è probabilmente il film perfetto da rivedere per celebrare la Giornata della Terra.

Verdura di stagione

Siamo ad Aprile e non c’è nulla di meglio degli asparagi, dei carciofi, delle carote, del cavolfiore, del cavolo verza, le puntarelle, le insalate primaverili (cicorie, tarassaco, papavero, grumolo, valerianella), dell’asparago selvatico, dei cipollotti, di fave, piselli e dell’aglio fresco. Ognuno di questi potrebbero diventare un’insalata gustosa da sgranocchiare, fresca o cotta al vapore, o al wok arricchita con le salse che abbiamo in casa.

Deep – Un’avventura in fondo al mare

Deep – Un’avventura in fondo al mare

Dai creatori di Madagascar, un film d’animazione per tutta la famiglia. Racconta la vita marina di un gruppo di abitanti dei fondali che vivono in una caverna sottomarina diventata una sorta di oasi, scampata al disastro planetario causato dagli umani, che hanno poi abbandonato il pianeta. L’avventura e il divertimento sono assicurati.

Frutta di stagione

Fragole, nespole, arance, mandaranci, clementine, pompelmi, cedri, kiwi, limoni, pere, mele, se non avete nessuna di queste prelibatezze in casa, correte a comprarne un sacchetto! Dalla fragolata alla macedonia, ci sono modi più salutari e piacevoli per sgranocchiare qualcosa mentre si guarda un film, anche evitando la masticazione rumorosa che potrebbe disturbare la visione di chi condivide la visione con voi.

Greta Thunberg – Un anno per salvare il mondo

Si tratta del docu-viaggio della giovane attivista, con il quale ha testimoniato i cambiamenti dovuti al riscaldamento globale. Il viaggio compiuto tra il 2019 e 2020, analizza le trasformazioni e indaga sulle azioni necessarie per salvare il pianeta. Il documentario arriva dopo “I Am Greta – Una forza della natura”, il documentario biografico diretto da Nathan Grossman che la segue nella sua crociata internazionale per convincere la gente ad ascoltare gli scienziati sui problemi ambientali del mondo.

Torta di pane raffermo

Vi serve solo del pane raffermo (anche integrale o misto o s/glutine), del latte caldo, un paio di uova, cacao, zucchero, olio di semi e una bustina di lievito per dolci. Potete farcirlo con zucchero a velo, delle fettine di pera o gocce di cioccolato per renderlo goloso, ma è un dessert in tema con la Giornata della Terra.

WALL E (2008)

WALL•E

Il nono lungometraggio Pixar racconta un lontano futuro in cui è l’unico abitante del pianeta Terra è WALL•E, un robot che ripulisce l’accumulo di rifiuti lasciati dagli esseri umani. Un giorno scende dal cielo un robot ad alta tecnologia di nome E.V.E. che lo fa innamorare, e in nome di questo amore i due vivono un’avventura che cambia il loro destino e quello dell’umanità.

Frittata di pasta

Almeno una volta nella vita vi sarà capitato di trovarvi di fronte ad una frittata di pasta, magari durante una scampagnata. Servono uova e della pasta avanzata, purché sia stata conservata in frigorifero. C’è chi ci aggiunge il burro, a chi basta solo un filo d’olio in padella. La cosa veramente importante è girarla da entrambi i lati durante la cottura e servitela calda, ma non bollente.

Don’t Look Up

Don’t Look Up

Una coppia di astronomi si accorge dell’esistenza di un meteorite in rotta di collisione con la Terra. I due scienziati cercano di avvertire tutti sulla Terra che il meteorite distruggerà il pianeta in sei mesi. Dietro la commedia si celano le teorie scientifiche secondo le quali ci stiamo sempre più avviando verso la catastrofe ambientale. Un cast stellare per una serata di risate e qualche spunto di riflessione.

Controlla il cibo che hai in casa

In fondo si cela un consiglio che va bene per tutte le case: aprite le ante della vostra cucina, controllate cosa c’è in frigo e prima di optare per il take away o il delivery, che sono la scelta più facile, date un’occhiata al cibo in scadenza. Buttarlo via non aiuta l’ambiente, non aiuta la società e non fa onore a voi stessi che avete speso del denaro per acquistarlo. Controllare non costa nulla e internet è pieno di ricette sfiziose e innovative per un riutilizzo creativo.

Lo Zingaro a Catanzaro: Intervista a Marco Bocci

In un monologo emotivo e appassionante Marco Bocci racconta la storia dello Zingaro che cerca se stesso attraverso un legame quasi ossessivo con Ayrton Senna. Lo spettacolo “LO ZINGARO – Non esiste curva dove non si possa sorpassare” chiude la stagione di prosa del Teatro Politeama di Catanzaro nella serata di sabato 23 aprile.

Presentato da TSA Teatro Stabile d’Abruzzo e Stefano Francioni Produzioni, lo spettacolo scritto da Marco Bonini, Gianni Corsi e Marco Bocci, si compone con musiche di Davide Cavuti ed è diretto da Alessandro Maggi.

Marco Bocci

In circa un’ora di monologo, Bocci racconta i pensieri ed i ricordi che legano il protagonista al campione di Formula Uno.

Ci racconti le coincidenze che rappresentano il tema principale dello spettacolo.

La ricostruzione del protagonista è la dinamica intorno alla quale si svolge lo spettacolo, ma anche l’illusione di non capire chi sia il protagonista. Sono quelle coincidenze che proietti intorno al tuo idolo, non sai se sono reali o casuali, sono un po’ immaginate da te che cerchi per forza una somiglianza. E poi ci sono coincidenze tangibili. Non vedi soltanto l’idolo per quel che rappresenta, ma per quel che può rappresentare e capisci l’insegnamento che la figura ha cercato di darti. È chiaro che lo Zingaro sin da bambino ha fatto una ricostruzione nella sua testa e ora quarantenne cerca di mettere il punto per chiudere il quadro.

A tal proposito, il protagonista è lo Zingaro o la proiezione su Ayrton Senna?

La figura di Senna passa attraverso tanti aneddoti. I personaggi diventano un tutt’uno durante lo spettacolo. Ci sono aspetti di Senna da prendere in maniera più fredda, perché riguardano il suo mestiere, altri invece che lo collegano al protagonista e qui si crea un conflitto d’interessi. Dopotutto lo spettacolo si basa sulla ricostruzione dello Zingaro e la figura di Senna passa attraverso tanti aneddoti. I personaggi diventano un tutt’uno e Senna diventa anche lo Zingaro.

La numerologia e la superstizione sono temi dello spettacolo?

La superstizione no, la numerologia sì. Ci sono luoghi specifici e date che fanno coincidere così tanti avvenimenti che sono fondamentali per la vita di Ayrton Senna e per lo Zingaro. Diventano segnali lungo il percorso, una somma di premonizioni che in qualche modo ti portano a riflettere. Il punto è riuscire a fare la riflessione giusta. La domanda che lo Zingaro si pone e che pone lo spettacolo è: Quello che ci accade nella vita è totalmente un segno del destino oppure c’è un significato ben profondo e dobbiamo essere in grado di coglierlo, per capire alcune dinamiche della nostra vita?

Bella domanda. È uno spettacolo dal finale aperto quindi?

Lo spettacolo un tentativo di risposta cerca di darlo, ma è chiaro che poi ognuno deve trovarla in sé stesso. Alla fine deve fungere da stimolo e serve anche per comprendere la realtà. Bisogna lottare per raggiungere i propri sogni ed è giusto dargli un senso di concretezza.

È una coincidenza anche il fatto che sia stato scritto da tre persone?

È un’altra coincidenza che ha un senso molto profondo, sì. Ogni testa ha descritto in maniera approfondita ognuno di questi tre personaggi. Io naturalmente sono andato a descrivere alcune parti del protagonista, Gianni Corsi alcune dinamiche di Ayrton Senna, mentre Marco Bonini si è concentrato su altri aspetti di Senna, quindi c’è stata una sorta di scissione tra i protagonisti e i tre scrittori, ma è stato abbastanza casuale.

Quanto ha attinto alle sue passioni per interpretare questo personaggio?

Nel momento in cui vai a scriverlo, devi avere qualcosa dentro che ti trascina. È un bisogno quasi fisico e animalesco, altrimenti non riesci.

Se non lo desideri con tutto il corpo questo mestiere non riesci a farlo, soprattutto agli inizi, quando non hai appigli e poi piano piano crei un percorso, dei punti di forza e delle certezze. È fondamentale avere voglia di farlo, io ne avevo un bisogno fisico.

Dopo 4-5 anni lontano dal teatro, avevo bisogno di tornarci e questa scrittura è capitata in un momento in cui era tutto fermo. Ho preso da qui la forza. Abbiamo iniziato a pensarlo prima del Covid, ma vivevamo di altra roba, le dinamiche erano frettolose, invece poi con il lockdown sono venuto a contatto con le esigenze primarie, avevamo tanto tempo e quindi è stato un segnale forte, che mi ha dato la capacità di adoperarmi e la forza di farlo, ritrovando il tempo anche di parlarne con gli altri.

Lei ha messo parte di sé stesso nel personaggio, cosa le sta restituendo invece lo Zingaro?

È chiaro che lo spettacolo tratta tematiche che fanno parte della vita e che viviamo attraverso ricordi in maniera astratta, ma se li porti in teatro ne parli continuamente ed è come se il ricordo diventasse concreto. A furia di fare repliche, il ricordo diventa qualcosa di materiale che ti restituisce un passato stabile e diventano certezze, aneddoti fondamentali nella tua vita.

Questo spettacolo ti porta a fare i conti con tante cose. È particolare e complicato anche per lo spettatore, perché rischia di essere difficile mettere a fuoco ogni cosa. È un continuo di ricordi che si mischiano a pensieri legati al passato, al presente, che lo Zingaro vive in prima persona e a volte in terza persona. Ho scelto di farlo prendendolo in maniera molto intima, vuol dire che per essere apprezzato ha bisogno di luoghi piccoli, in modo da sentire tutte le persone e guardarle, così da poterci entrare a contatto.

È chiaro che le persone le senti piano piano ed è un percorso unico dove c’è la resa dei conti ed è sempre molto complicato, ma ritrovo una reazione che mi piace molto.

Marco Bocci sabato in teatro, ma la sua carriera spazia dalle fiction televisive al cinema. C’è un media nel quale preferisce lavorare? O che preferisce in modo personale?

Non c’è preferenza ma bisogni. Ho cominciato con un percorso totalmente accademico, con la scuola di teatro, poi mi sono avvicinato alla tv, al cinema. Ho bisogno di tutte le cose, ma dipende dall’ultimo lavoro che ho fatto, dal contatto che ho bisogno di avere dal pubblico in quel momento. A volte vorrei qualcosa di più ricercato, altre qualcosa di più diretto, ma non sceglierei mai uno solo dei tre perché credo che, chi faccia questo mestiere, si senta completo in tutti i modi di esprimersi. Fare teatro mi da un senso di libertà che facendo TV e cinema non ho.

Spoiler: dove potrà trovarlo il grande pubblico in futuro?

Al momento sto finendo di girare una serie per Sky che s’intitola “Unwanted” e sto lavorando alla post-produzione del mio secondo film, che s’intitola “La caccia”, di cui non abbiamo ancora la data d

Intervista agli chef Francesco Marinaro e Domenico Rullo

«La gara è un calcio di rigore in cui esprimi tutto te stesso»

Sono le parole dello chef soveratese Domenico Rullo che, assieme al collega Francesco Marinaro, ha partecipato ai Campionati della cucina italiana 2022 indetti dalla Federazione Italiana Cuochi.

Proprietario dello Shabby Restaurant di Soverato, Rullo si trova attualmente in ottava posizione nel ranking nazionale per la categoria Cucina Calda K1 Senior, vincendo la medaglia di bronzo nella competizione svoltasi a Rimini.

Invece Francesco Marinaro, chef con svariate competizioni alle spalle e docente di cucina nella Casa Circondariale “Ugo Caridi”, è in terza posizione nel ranking nazionale per la categoria Cucina Calda K1 Senior, vincendo la medaglia d’argento nella sudetta categoria e un altro argento nella gara di Street Food disputata con i colleghi Giulio Maccherone e Michele Monteleone.

La vostra gara: come avete gestito la preparazione e la tensione?

F.M.: Abbiamo lavorato molto nel pre-gara. I primi 10 giorni sono stati senza sonno cercando di migliore il piatto e capire la traccia richiesta dalla competizione. Vero che eravamo Quando si va in competizione, vero che sei tu come persona e professionista, ma rappresenti la Calabria e la tensione la senti.

In gara avevamo 45 minuti per la preparazione.

FIC quest’anno ha imposto l’halibut, dal momento che lo sponsor principale era un’azienda produttrice di questo pesce norvegese. Io ho cercato di utilizzarlo accompagnato da materie prime attinenti al nostro territorio: ho usato il guanciale di suino nero, olive, pomodorino, ho abbinato il pesce ad una salsa ai frutti di mare con datterino giallo ed ho usato la seppia, essendo stagionale.

Piatto proposto dallo Chef Francesco Marinaro (FIC 2022)

Ho utilizzato tutto di tutto: con la parte del corpo ho fatto un tappetino di seppia, tentacoli fritti e con la sacca nera ho riprodotto un bignè al nero di seppia con i ritagli di halibut mantecati. I ritagli sono le rimanenze del pezzo principale con cui ho formato un rollino di halibut con olive, pomodorini, avvolto in una mousse di pollo e guanciale, cotto a bassa temperatura per almeno 30 minuti e poi abbinato alle salse.

D.R.: Il pre-gara è stato veramente stressante, la gara non è nient’altro che ciò che fai, ma ci vuole la mentalità da gara e l’esperienza. Lo direi a qualsiasi cuoco di provare, è emozionante.

Ti metti alla prova, ti confronti, hai il giudizio di maestri di cucina, ci sono grandissimi chef che ti possono dare un consiglio sul piatto o possono aprirti altre possibilità da applicare nel lavoro quotidiano. Oltre alla gara, vai a dimostrare di essere un professionista applicando le regole HACCP, rispettando alla lettera il regolamento.

L’esperienza da gara ti fa anche capire che il piatto migliore della tua vita non puoi portarlo in competizione.

Al termine della gara, c’è l’incontro con i giudici ed è un’esperienza che non ha prezzo, perché non ti capita spesso di ricevere un feedback da veri maestri in cucina.

Ho presentato un halibut per la prima volta. Siamo della Costa Ionica, siamo abituati ad altro.

Il mio piatto si componeva di una terrina di halibut con inserto al gambero, ricoperta da una foglia di verza precedentemente sbianchita, cotta al vapore per 15 minuti e dal pezzo principale ne ricavavo una salsa al limone e aneto, in accompagnamento c’era una melanzana baby ripiena di halibut e una tartarre di gambero locale, con una maionese di gambero, un macaron di maltodestrine e due salse d’accompagnamento: una crema di zucca e una di piselli.

Piatto proposto dallo Chef Domenico Rullo (FIC 2022)

Un’altra cosa tanto richiesta dal regolamento quest’anno è il recupero delle parti edibili dello scarto.

I momenti indelebili della gara?

F.M.: Le tante persone intorno, il vociare, i rumori che poi spariscono nel momento in cui inizia la gara. L’unica persona che vedi è il commissario da gara che controlla tutti i passaggi, monitorano le temperature degli alimenti. Alla fine se invece di essere in gara, ci fossero dei clienti in attesa di mangiare, devi risolvere tutte le problematiche che possono verificarsi durante il lavoro.

D.R.: La paura appena arrivato nel box gara. Quando inizi a concentrarti, ti isoli e non vedi più nessuno fino alla fine della gara in cui ho scaricato tutta la tensione ed ero soddisfatto. Non mi interessava più se avevo vinto o perso, avevo dato il massimo ed ero arrivato alla fine. Volevo solo una bottiglietta d’acqua e una sigaretta.

Meglio la competizione o un banchetto di tante persone?

F.M.: Per affrontare un banchetto hai il tempo di prepararti. La competizione è diversa. Con il cliente non è una competizione, dai il massimo per soddisfarlo, rispetti le regole di sanificazione come in gara, ma c’è più adrenalina. In competizione sai che stai aspirando alle medaglie. Nella tua cucina non c’è un commissario di gara attento a controllare ogni quanto cambi i guanti o il tagliere. Io ho sbagliato in gara, può succedere, ma come succede in cucina, devi saper sbagliare e recuperare

D.R.: I migliori giudici sono i clienti. Posso presentare il miglior piatto in competizione, ma se poi non lo vendo o il cliente non lo mangia, non ho ottenuto molto. L’esperienza da gara ti fa capire che il piatto migliore della tua vita non puoi portarlo in competizione.

La cucina di gara è diversa dai piatti somministrati nel locale? Il vostro piatto trova spazio in un menù à la carte?

F.M.: La mia struttura è solo estiva, quindi le uniche prove che facevamo le mangiavamo io e lui stando attenti più agli aspetti tecnici. C’è sicuramente una differenza nell’impiattamento e nella precisione, perché alla fine della gara i piatti che devono uscire devono essere tecnicamente perfetti.

D.R.: Lo scopo di Federazione Italiana Cuochi in questo tipo di gare è di creare un piatto riproducibile nei ristoranti. Nel preparare il piatto da competizione ho testato alcuni elementi proponendoli nel mio locale e l’esperienza è stata bellissima, ma se il piatto non lo vendo o non posso inserirlo in menù, la medaglia rimane un trofeo personale

L’expo di Milano aveva avviato la tendenza verso un turismo enogastronomico. Questa tipologia di cucina attira il turista enogastronomico?

F.M.: Il nostro territorio penso sia pronto ad accoglierlo, abbiamo riportato vittorie importanti che dimostrano quanto i cuochi calabresi stiano ricercando e studiando i marchi enogastronomici locali. I nostri prodotti naturali sono già ottime materie prime. Siamo andati alla ricerca del prodotto e abbiamo imparato a valorizzarlo.

D.R.: L’Italia è una nazione unica al mondo per posizione e microclima. Negli ultimi anni stiamo imparando a vendere quello che abbiamo, anche se non sappiamo valorizzarlo del tutto. Mi auguro che, se oggi non fossimo ancora pronti, ci stiamo preparando al meglio per rispondere a delle aspettitive che immagino siano alte.

Chef Rullo, quindi secondo lei, i cuochi catanzaresi sono meno preparati alla cucina enogastronomica?

D.R.: La Calabria in generale è un po’ meno abituata da questo punto di vista. Tocca a noi alzare l’asticella e avere cura del territorio, dei suoi prodotti e dei nostri collaboratori. Se il nostro lavoro finisse per colpa di chi ha sbagliato, facendo disinnamorare i giovani, avremmo perso tutto.

La tradizione culinaria calabrese, rispetto ad altre regioni, non trova spazio. È un problema associativo o dipende da mancanze istituzionali?

F.M.: La regione Calabria è sempre stata assente, tutto ciò che abbiamo fatto per rappresentarla è stato possibile tramite gli sponsor e qualche amico. La regione è stata presente in Casa Sanremo, dove le Lady Chef hanno lavorato per gli ospiti illustri presenti al Festival. La Calabria ha sponsorizzato con FIC l’evento, forse perché la vetrina è più prestigiosa del campionato italiano dei cuochi.

D.R.: Abbiamo partecipato con le nostre risorse, siamo stati un po’ aiutati dall’Unione Cuochi Calabria, ma l’investimento è personale. La presenza dell’istituzione o dell’associazione comunque dovrebbe esserci, anche perché avvicinerebbe più persone e, come dicevo, è un’esperienza che io consiglierei di fare a qualunque collega.

A chi rivolgersi per scoprire il mondo delle gare sul territorio catanzarese?

F.M.: Serve un comparto gare dedicato e più corsi di formazione per spingere la parte giovanile verso la trasformazione della materia prima. Con le gare non ci mangi, è solo una vetrina personale e professionale, ma sarebbe uno stimolo. La Calabria è poco organizzata rispetto al resto d’Italia e nonostante questo, i successi arrivano. Con coesione e supporto si lavorerebbe bene, per ottenere risultati migliori.

Esiste un team regionale, ma manca un comparto gara?

F.M.: Sì, sul territorio catanzarese avevamo tentato di costruire un progetto. Diciamo che forse sono la persona con maggiore esperienza, nella nostra provincia, nell’ambito delle competizioni, grazie all’esperienza fatta con il Team Calabria e al Team Manager, lo Chef Rocky Mazzaferro. Mazzaferro è presidente provinciale dell’Associazione Cuochi di Reggio Calabria e prepara ad approcciarti alla gara con consigli pratici. Se dobbiamo immaginare di affrontare la competizione del prossimo anno con una squadra catanzarese, dico che non saremo pronti. Se invece mettessimo insieme un gruppo interprovinciale di almeno dieci elementi, sapremmo che almeno quattro o cinque gareggeranno, perché il sacrificio c’è ed è intenso. L’interprovinciale farebbe bene a tutti: crea crescita, indotto ed è più semplice. L’importante è arrivare in competizione e fare bene, rappresentando al meglio sé stessi e la Calabria.

Oggi il lavoro della scuola alberghiera tende più sulla valorizzazione dei prodotti del territorio o sulla cucina gourmet?

F.M.: Il ruolo del docente è quello di fare innamorare il ragazzo di questo lavoro. Dev’essere una missione e una passione cucinare, altrimenti si sbaglia tutto il percorso di vita dell’allievo che avrà perso cinque anni. Al primo anno è importante partire dal basso, sposando in pieno il “chilometro zero”, cercando di puntare sulla stagionalità perché ormai troviamo tutti i prodotti tutto l’anno, ma noi sappiamo benissimo che un prodotto non stagionale ha un sapore completamente diverso e costa il triplo. Non è solo una questione di professionilità ma anche di costi per il tuo ristorante.

Nella costruzione del percorso quinquennale, è compito del docente far capire come si costruisce un piatto, le tecniche di cottura e l’utilizzo appropriato.

Oggi il mantenimento della variazione cromatica dei prodotti è particolarmente importante per FIC. Molte volte nella cromatura delle verdure è bello vedere e si mantiene la cottura e il colore con le giuste tecniche.

Il docente dev’essere un modello, uno spunto, perché mettendoti in gioco sarai d’esempio ai ragazzi che tenderanno a fare lo stesso. In gara mi sono ritrovato con persone della mia età e tanti allievi, perché la scuola deve puntare ai giovani per arrivare a questo traguardo. Ogni anno si fanno dei campionati interni, tra tutti gli istituti alberghieri regionali e il primo classificato ha l’accesso ai campionati italiani. Con noi quest’anno c’era la ragazza di Crotone che ha vinto e nonostante a Crotone manchi l’associazione provinciale, lei ne era una rappresentante nazionale.

D.R.: Penso che ci sono stati docenti che non sono riusciti a trasmettere l’amore per questi prodotti e, come tanti amministratori, riescono a vedere i turisti solo per quanti soldi possono spendere, invece che come una possibilità di dimostrare quello che siamo, culturalmente, attraverso i nostri prodotti e la nostra cucina.

Penelope di Teresa Timpano: Una donna oltre ogni maschera

«Per la prima volta a Catanzaro e sono contenta di essere al Comunale»

A dichiararlo è Teresa Timpano, attrice reggina e premio Giovani realtà del teatro 2014, protagonista di “Penelope”, il penultimo spettacolo della stagione teatrale 2021/22 di Ama Calabria.

Lo spettacolo prende il nome dalla protagonista, moglie di Ulisse, che ripercorre le più atroci conseguenze dell’amore. Prodotto da Scena Nuda – Festival Miti Contemporanei e Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, è diretta da Matteo Tarasco.

Timpano racconta la forza di un personaggio che lancia al pubblico la sfida di spogliarsi di ogni maschera.

Penelope vuole riappropriarsi della verità oltre lo specchio. Quanto siamo lontani da questa consapevolezza?

Siamo molto lontani. Viviamo in un territorio molto mascherato, con la paura dei propri sentimenti e di chiedere scusa.

Con questo spettacolo cerchiamo di aprire un mondo emotivo al pubblico, mostrando con forza la profondità e la verità di questa donna, che conduce verso l’apertura della società impaurita.

Lo vediamo negli affetti, nell’amicizia, ormai servono mediatori continui perché siamo bloccati e chiusi.

Il nostro scopo, come teatro contemporaneo, è di entrare nel cuore del pubblico e possiamo farlo attraverso la vicinanza reale, riprendendo i miti in maniera innovativa, poiché le opere greche lavoravano sulla società del tempo, ma è importante rielaborare e rivisitare quei temi che sono attuali.

In che modo ha scelto di lavorare sul personaggio di Penelope?

Non mi calo in un personaggio, ma lo costruisco attingendo da Teresa, che rimane lucida come artista e come persona.

Lavoro su un personaggio attraverso le azioni. Il teatro contemporaneo vuole scostarsi dall’immedesimazione, non crediamo più in una recitazione formale come negli anni ’50, ma il pubblico rimane agganciato emotivamente quando il personaggio è imperfetto.

È importante trovare delle connessioni, ma è fondamentale capire che il teatro è una costruzione credibile, non è la vita.

È un comportamento cosciente dell’attore, con rimandi a ciò che si può comprendere. Attraverso le motivazioni e i conflitti si costruisce un personaggio e oggi dobbiamo legarci al presente, senza restare fuori dal contesto in cui viviamo.

Qual è la reazione del pubblico innanzi alla sfida proposta da Penelope?

Dopo lo spettacolo ci è capitato che qualche spettatore si rendesse conto di voler agire nei confronti di una situazione ed è pazzesco. È la vera catarsi.

Il pubblico ha sempre reagito bene al nostro imput di creare una relazione empatica con quello che accade. Penelope è un personaggio che racconta una donna che mette sé stessa nelle azioni e nelle parole.

È il punto di vista della donna con il suo uomo, in varie modalità, sia d’ammonimento che di comprensione e questo il pubblico lo avverte.

Si avverte la mancanza di un centro di formazione per i giovani attori calabresi?

Trovo fondamentale che la formazione teatrale debba avvenire fuori dai propri contesti, perché dev’essere libera e devi svuotare tutto il sacco e rimettere dentro da capo. È il primo passaggio che si fa in accademia e ci mette in una posizione migliore di ciò che si pensa.

Il nostro vero svantaggio è che, qui ancora, non si considera un mestiere fare l’attore.

Il territorio ci permette di essere un punto di partenza per i giovani, prima di andare in accademia. Io ho studiato a Udine, mi sono specializzata in Emilia Romagna e posso dire che tutte le regioni hanno grandi problemi, perché è il contesto italiano ad essere un problema.

Qui c’è meno concorrenza rispetto alle grandi città, è un territorio da arare, ma facciamo un lavoro serio e competitivo, con il vantaggio di essere pochi.

Per quanto riguarda l’offerta, è un grave problema che sia molto molto bassa. Speriamo negli anni di essere noi un presidio vero che possa offrire spettacoli ogni settimana.

Pubblicazione su Il Quotidiano del Sud